giovedì 24 dicembre 2009

L'acqua sotto il ponte

Orazio Converso
"../uno che guarda l'acqua dal ponte / all'imbrunire, le man posate / sopra le antiche pietre squadrate./.."
http://mondoailati.unical.it/didattica/modules.php?name=News&file=print&sid=248
SAAB
Non è un caso e non è la prima volta che, in momenti di difficoltà qui sul MaL, la discussione dedicata ad Emilio torna a galla nella nostra linea di fuoco.
In tutte le comunità - grandi o piccole - quando il pericolo incombe ci si stringe attorno a lari e penati, al ricordo e all'esempio degli eroi.... See More
Non si dovrebbe morire. Non si dovrebbe morire giovani. Non si dovrebbe morire da soli. Emilio, in quella notte che ho immaginato tante volte, squarciata solo dal fascio sghimbescio dei fari della sua macchina, in un colpo solo, ha contravvenuto a tutte e tre queste regole.
E da quello schianto, compiendo un balzo vertiginoso, Emilio è asceso all'Olimpo degli eroi della piccola comunità del MaL.

Un incontro/scontro furioso il mio con Emilio. Ricordo benissimo la sessione di chat in cui l'ho "conosciuto". Parlo con il prof. G. ed altri: lui arriva, violento, con l'urgenza del desiderio di dire, di esserci, con quel modo un po' goffo del bambino che strepita per affermare:"ci sono, eccomi, guardami, ascoltami, ho delle cose dentro che voglio darti e quello che c'è fuori non mi piace, nemmeno tu. Dimostrami che vali che mia amicizia". Non era il primo, non sarà l'ultimo.
E poi è venuta quell'accusa di plagio: i "vecchi" del MaL forse ricorderanno che Emilio mi accusò ferocemente di essermi appropriata di un suo scritto e di averci apposto la mia firma. Un episodio che mi procurò una piccola ferita, presto rimarginata, non appena chiarito l'equivoco.
Emilio comprese lo spirito di quella operazione e tutto quello strepito dette inizio non solo ad un'interessante riflessione sull'autore collettivo (non ancora compiutamente affrontata qui in termini teorici, malgrado nobili e riuscite pratiche di produzione collettiva), ma gettò il seme della fiducia e dell'amicizia fra me e lui.
Seme che non ebbe modo di germogliare, perché marcì nelle lacrime di quella notte e dei giorni che le seguirono.
Un contatto, appena, ma, proprio perché nato dalla guerra, ci sembrò profondo, pieno di promesse, profumato di futuro. Niente.
Emilio appariva felice in quei giorni: si era impegnato nel progetto del canile di Celani, gli sembrava che il MaL potesse essere davvero un luogo vero, libero, dove potersi esprimere seriamente e giocosamente e sotto la luce di questa ritrovata fiducia ogni cosa appariva nuova, bella, meritevole di essere vissuta.

Non si dovrebbe morire e meno che mai morire giovani. I rimpianti di coloro che lo hanno conosciuto appena e il dolore di chi gli era amico da tempo hanno collocato Emilio sul piedistallo degli eroi, da dove - io credo - lui stesso, incredulo, ci indirizza futuristici sberleffi.
Stringersi attorno ai ricordi e rinnovare gli impegni presi nei momenti di commozione e di emozione profonda è cosa senza dubbio buona: e cosa ancora migliore sarebbe attingervi forza, consapevolezza, tenacia, fiducia, serietà di intenti e allegria.

Io credo che migliore omaggio alla memoria di Emilio, giovane e inconsapevole eroe dalla fronte luminosa, noi tutti non potremmo rendere.

ah, dimenticavo: cia'

giovedì 24 settembre 2009

Cos'ha ha il mio cuore che batte

autori: Amelia Rosselli. Cos'ha ha il mio cuore che batte
Postato il Martedì, 30 ottobre 2007 di editor

poesia Cos'ha il mio cuore che batte sì soavemente

ed egli fa disperato, ei

più duri sondaggi? tu Quelle

scolanze che vi imprissi pr'ia ch'eo

si turmintussi sì

fieramente, tutti gli sono dispariti! O sei miei

conigli correnti peri nervu ei per

brimosi canali dei la mia linfa (o vita!)

non stoppano, allora sì, c'io, my

ivvicyno allae mortae! In tutta schiellezze mia anima

tu ponigli rimedio, t'imbraccio, tu, -

trova queia Parola Soave, tu ritorna

alla compresa favella che fa sì che l'amore resta.

La briglia di Giove vi dà pace?

Ditemi: come va con l'altra?
Meglio? meno grane? - Mano ai remi! -
Vana linea costiera s'assottiglia,
scompare la memoria estrema

di me, isola fluttuante
(per cielo, non per mare...)
Anime, anime: sorelle! Anime:
amiche - mai più amanti!

Come vi va con la creatura
semplice? Senza divinità? E poi?
Voi, sceso dal trono, voi
che avete deposto la regina,

come vivete? Non c'è male? Non più
beghe? E bevete - quanto, adesso? E la cucina?
Il dazio della mediocrità immortale
come lo pagate, poveretto?

"Basta con le scenate, con gli eccessi -
cambio casa, vado via!"
Con la qualunque - come state
di che vivete, voi - mio eletto?

Mangiate - e dopo pranzo un sonnellino?
- Non lamentarti quando sarai sazio!...-
Con il simulacro come state
voi che avete dissacrato

il Sinai? Come vivete con la donna
terrestre? Per la costola vi piace?
Non vi frusta la fronte la vergogna?
La briglia di Giove vi dà pace?

E la salute? E i nervi? Senza
problemi? A letto tutto bene?
L'immortale piaga della coscienza
come la curate, poveretto?

Come vivete con la merce da mercato?
Troppo cara la vita? Vi assilla
l'alto prezzo? Dopo i marmi di Carrara
che ve ne fate del tritume

di gesso? (E' in pezzi
il dio scolpito nell'argilla...)
Come ci state con la milleunesima
voi - che avete conosciuto Lilith?

Già v'annoia l'ultima trovata
della moda? Sottratto all'incantesimo,
dite, come ve la passate
con l'umana senza il sesto

senso?

In coscienza - sei felice?
No? In quel disastro senza dei
come stai, amore? E' dura? Sì?
Come per me con l'altro?

Pina e i suoi compagni

L'autunno

venerdì 14 agosto 2009

Jaco Pastorius in viaggio sul bus per Arcavacata

giovedì 13 agosto 2009

ferlinghetti [aut.cit.]

cover? age?
Faccio una vita tranquilla al bar di Mike certi giorni, ehi.
caspita, ferlinghetti!


bello l'ambiente, contiene oggi di ciò che accade in quel momento, con qualcosa di estraneo
in più, è quello il suo valore, anche se poi ci si immedesimiamo e siamo lì ; cogliamo le cose che avremmo colto s'avessimo avuto l'avventura d'essere al reading di persona, filtrando l'evento, secondo quanto eravamo in quel momento, ma a distanza.

cover age


BABY, LET'S PLAY HOUSE LYRICS

Send "Baby, Let's Play House" Ringtones to Cell

(words & music by Arthur Gunter)
Oh, baby, baby, baby, baby baby.
Baby, baby baby, b-b-b-b-b-b baby baby, baby.
Baby baby baby
Come back, baby, I wanna play house with you.

Well, you may go to college,
You may go to school.
You may have a pink cadillac,
But don't you be nobody's fool.

Now baby,
Come back, baby gone.
Come back, baby gone.
Come back, baby,
I wanna play house with you.

Now listen and I'll tell you baby
What I'm talking about.
Come on back to me, little girl,
So we can play some house.

Now baby,
Come back, baby gone.
Come back, baby gone.
Come back, baby,
I wanna play house with you.
Oh let's play house, baby.

Now this is one thing, baby
That I want you to know.
Come on back and let's play a little house,
And we can act like we did before.
Well, baby,
Come back, baby gone.
Come back, baby gone.
Come back, baby,
I wanna play house with you.

Yeah.

Now listen to me, baby
Try to understand.
I'd rather see you dead, little girl,
Than to be with another man.
Now baby,
Come back, baby gone.
Come back, baby gone.
Come back, baby, I wanna play house with you.

Oh, baby baby baby.
Baby baby baby b-b-b-b-b-b baby baby baby.
Baby baby baby.
Come back, baby, I wanna play house with you.

L’istruzione pubblica è una peste razionalista

Freinet Comunista http://www.ecn.org./filirossi/freinet e il Denis De Rougemont di L’istruzione pubblica è una peste razionalista

Dall’età di sei anni s’istruiscono i nostri bambini a non porsi domande di cui non abbiano appreso la risposta a memoria. Guardate uno scolaro eseguire i compiti, è sorprendente: impara le domande altrettanto bene delle risposte. Bisogna riconoscere che con questo non so che di declamatorio, di… giornalistico, di ampollosamente vuoto, questo vi dà una certa aria democratica… e d’altronde voi amate le idee generose, non è vero?

Ne ero sicuro. Ciononostante ho paura che il mio progresso non sia il vostro, e anche che la sua natura lo conduca in una direzione completamente opposta.
C’è molta malevolenza nell’aver inventato uno strumento di progresso: bisogna ancora saperlo mettere in moto - e dove portarlo? Ci sono molte strade, ma voi non amate il rischio, preferite il surplace. Così l’istruzione pubblica si è fermata ai dintorni del 1880 e da allora non si è più mossa. Il motore non consuma di meno, e non ha smesso di borbottare e di appestare tutto. E poco a poco il pubblico si rende conto che "lo strumento di progresso" non è che un camuffamento sotto il quale si distilla il radicalismo integrale. Mi si farà osservare che molti serventi della macchina sono socialisti o conservatori: ecco che questo non cambia il rendimento, l’immagine né la natura dei prodotti secreti.
Ammetto che trovo tutto questo molto forte: aver ottenuto un conformismo della curiosità. È vero che non ci vorrebbe di meno per assicurare la sicurezza di un regime stabilito nelle poltrone; perché un popolo di elettori fantasiosi sarebbe a volte tentato di tirare bruscamente queste sedie, scherzo ben noto e che ridicolizza immediatamente le sue vittime.In fatto di scherzi, fingerete di trovar buono questo: io sostengo che la scuola è un’istituzione conservatrice. - Nemmeno questo! Essa è destinata a legittimare con la forza dell’inerzia e a perpetuare tutto ciò che viene dopo Numa.
Conservatrice e non reazionaria, no, per nulla. Perché le forze di reazione collaborano a loro modo al progresso, correggono, stimolano, vivono. La Scuola si accontenta di essere fossilizzata. È un freno? Neanche. È piuttosto una melma in cui sprofonda la nostra civiltà; e dove la Democrazia può conservarsi ancora per secoli… Ora, se dico che la Scuola è contro il progresso, è perché il progresso consiste nel superare la Democrazia. E questa tesi non va contro l’evoluzione naturale dell’umanità, come tuttavia non mancherete di dire, con il senso del cliché che è un omaggio ai vostri maestri.
Per mezzo dell’istruzione pubblica, la Democrazia limita l’uomo al cittadino. Si tratta dunque di oltrepassare il cittadino, di ritrovare l’uomo tutto intero. In questa operazione distinguo due fasi: prima criticare l’esistente - attraverso il confronto con ciò che fu, o che dovrebbe essere; poi, preparare il terreno per i nuovi giochi che l’umanità del futuro non mancherà di inventare. Non posso trattenermi dal vedere un intento provvidenziale in questo amore della distruzione e dell’anarchia che è in noi - ancora pochi lo ammettono. Perché forse la nostra generazione dovrà limitare i propri sforzi a distruggere, radere al suolo, e fare dei segni nel vuoto con la possibilità di correre grossi rischi.
Criticare il presente nel nome del passato non significa desiderare un ritorno al passato. Ma prendere in considerazione i regimi antichi può condurci a constatare, nulla di più, che il nostro sedicente progresso sociale corrisponde a un arretramento umano. Per esempio, è un progresso aver rimpiazzato le gerarchie tradizionali, con tutto l’ampio sfondo di poesia e di grandezza che questa parola comporta - quali ne fossero allora le realizzazioni - con delle gerarchie da mezzemaniche la cui origine è un ripiego, il cui metodo è la poltroneria redditizia, il cui spirito è la gelosia irrancidita armata di pedanteria, per non parlare del decoro, degli odori, della polvere, delle piccole abitudini sordide e di quella materia raramente “igienica” che definisce la nostra epoca: la scartoffia?

Questa critica del burocraticismo, state per dirlo, è un’accozzaglia di luoghi comuni.

Ma ce n’è bisogno, ahimè, tanto più che la maggioranza degli elettori li considerano come tali. E non mi considererò battuto quando mi si sarà fatto notare che la maggior parte degli intellettuali sono convertiti da tempo a queste idee antidemocratiche: è tempo che esse sconfinino da questa cerchia ristretta e distinta. Ci sono da fare le grandi pulizie, c’è da creare un’intensa corrente d’aria che porterà con sé tutte queste statistiche e questi giornali, ne resterà sempre abbastanza per accendere fuochi di gioia, ecc. Bene. Immaginiamo che tutto questo sia stato fatto. Respiriamo. Ma voi mi aspettate già al varco e m’intimate di dire in che modo, ora, intendo comportarmi per preparare i tempi nuovi. Domanda enorme. Avrò l’ingenuità non meno enorme di abbozzare qui la risposta che le riservo?
L’istruzione pubblica è la forma più comune della peste razionalista che imperversa nel mondo dal XVIII secolo (dopo le ultime pesti nere). Se approfondite un poco la nozione di democrazia, scoprirete presto che essa si fonda su postulati razionalistici. In verità, democrazia e razionalismo non sono che due aspetti, uno politico, l’altro intellettuale, di una stessa mentalità. Essa si è sviluppata nel XVIII secolo nell’aristocrazia, che vi vedeva niente di più di un gioco. Durante tutto il XIX secolo essa è scesa nella borghesia e nel popolo; e qui è diventata una tirannia. Prima c’erano la Ragione e i sentimenti. Ora ci sono il razionalismo e il sentimentalismo.
Questo razionalismo trionfa non soltanto nei princìpi democratici e in quelli della Scuola, ma anche in tutta la moderna conduzione della vita. È il nostro americanismo e la nostra aridità sentimentale. Ed è il grande impedimento interiore di cui soffre la nostra immaginazione creativa; esso isterilisce le nostre utopie ed impedisce loro di diventare altro che utopie. Si tratta in primo luogo di smascherarlo e di dargli la caccia ad ogni passo della nostra vita. Ma questo primo obiettivo costituisce un programma così ricco che è superfluo formularne un secondo. Lasciamo questo pensiero a generazioni più libere d’immaginare, in grado di beneficiare della nostra collera giacobina e di questa formidabile esperienza negativa che sarà durata almeno due secoli.L’evoluzione dell’umanità sembrerebbe conforme alla dialettica hegeliana; vi si ritrovano facilmente le triadi: essere - negazione dell’essere - nuovo essere. La nostra epoca sarebbe il secondo tempo di una di queste triadi. Il suo razionalismo nega l’essere sotto tutte le sue forme, traduce tutto in relazioni e vuole rendere ogni relazione cosciente, ossia, per lui, calcolabile, computabile. Nella misura in cui ci riesce, uccide le esistenze particolari, a meno che queste non siano già morte. Ma verrà il tempo in cui esse rinasceranno ad una vita nuova e più completa, ad un grado superiore di incoscienza, se così posso dire. Allora toccherà all’istinto integrare la ragione.
Credo che ci stiamo avvicinando a questo tempo. E che il vero progresso vuole che si contrasti tutto ciò che ostacola questo avvento. È per questo che rivendico l’espulsione della congregazione radicale degli insegnanti.Mi si domanda ancora che cosa metterei al loro posto. E dal momento che non propongo niente di preciso, si canta grossolanamente vittoria.Avrei voluto vedervi chiedere a un suddito di Luigi XIV che cosa concepiva in luogo della monarchia assoluta. Ci sarebbe voluta certamente una fantasia prodigiosa al predetto suddito per rappresentarsi appena vagamente la nostra attuale civiltà. E anche Diderot, anche Rousseau, alla vigilia della Rivoluzione, sospettavano forse che la repubblica ricercata si sarebbe abbandonata, appena cent’anni dopo,a questo ballo di San Vito politico di cui niente, nel loro tempo, poteva offrire la minima prefigurazione?
Bene, deducete da questa similitudine le formidabili possibilità che ci riserva il secolo a venire, e comincerete a comprendere che il vostro scetticismo nei confronti della forma sociale che invochiamo senza conoscerla e che già si elabora segretamente, che questo disprezzo e questo scetticismo sono di un ridicolo schiacciante, sotto il quale non tarderete a perire.


da Il Riformista, 30 novembre 2005

Lo scrittore e il suo maestro

(..) una forte spinta didattica, cioè morale. E quindi nel ruolo di insegnante si trovava perfettamente a suo agio. Ha combattuto affinché noi scolari non ci vergognassimo della cultura dialettale e minoritaria dei nostri genitori. Proprio in quegli anni andava componendo la sua raccolta di poesie e canti popolari. Noi avevamo avuto il compito di fare ricerche in casa. Dovevamo farci dettare dal papà e dalla mamma le canzoni, i detti, le filastrocche, le ninne nanne dei loro paesi d'origine. La difficoltà era di trascrivere quei suoni assurdi. Lo facevamo con lui, in classe.

Ricordo che un mio vicino di banco, non avendo trovato niente in casa, si presentò in classe con la famosa strofetta Sopra un sasso c'era scritto: c'era scritto sopra un sasso.

Quando buttavamo giù i temi in lingua ci segnava in rosso le sgrammaticature (di cui sempre ci spiegava l'origine dialettale) e in blu tutti i luoghi comuni che stavamo imparando parassitariamente dal conformismo della vita di tutti i giorni.

Insomma il professore voleva che acquisissimo una coscienza linguistica, per essere in grado di raccontare anche ciò che non si vede a occhio nudo. I linguaggi della parola, scritta e parlata, infatti, più che strumenti espressivi sono grimaldelli che servono a penetrare le verità nascoste.

Ogni settimana ognuno di noi scolari doveva pronunciare la parola che di più lo aveva impressionato, qualsiasi ne fosse la ragione e anche se non ne conoscevamo il significato. Me ne ricordo solo una, l'ho stampata nella testa fin da allora: onomatopea. Chi sa perché m'aveva tanto colpito.

Questo esercizio ci costringeva a fare attenzione al significato e alla proprietà dei termini usati. L'ultima ora della mattinata il professore ci leggeva o ci faceva leggere racconti e poesie. Imparavamo a memoria brani della Divina Commedia, versi di Petrarca e poi i giovani Penna, Caproni, Bertolucci, Ungaretti.Ci spiegava cos'era il "Dolce stil novo", ci diceva che per quanto Dante fosse un genio non andava ancora in bicicletta e, contemporaneamente, ci faceva sentire come suonava la lingua italiana nella voce dei grandi poeti contemporanei. (..)

Don Lorenzo Milani e la signora

Cara signora,

lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti.
Io invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi che “respingete”.
Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate.

la timidezza
Due anni fa, in prima magistrale, lei mi intimidiva.
Del resto la timidezza ha accompagnato tutta la mia vita. Da ragazzo non alzavo gli occhi da terra. Strisciavo alle pareti per non esser visto.
Sul principio pensavo che fosse una malattia mia o al massimo della mia famiglia. La mamma è di quelle che si intimidiscono davanti a un modulo di telegramma. Il babbo osserva e ascolta, ma non parla.
Più tardi ho creduto che la timidezza fosse il male dei montanari. I contadini del piano mi parevano sicuri di sé. Gli operai poi non se ne parla.
Ora ho visto che gli operai lasciano ai figli di papà tutti i posti di responsabilità nei partiti e tutti i seggi in parlamento.
Dunque son come noi. E la timidezza dei poveri è un mistero più antico. Non glielo so spiegare io che ci son dentro.
Forse non è né viltà né eroismo. È solo mancanza di prepotenza.

I montanari

la pluriclasse
Alle elementari lo Stato mi offrì una scuola di seconda categoria. Cinque classi in un’aula sola. Un quinto della scuola cui avevo diritto.
È il sistema che adoprano in America per creare le differenze tra bianchi e neri. Scuola peggiore ai poveri fin da piccini.

scuola dell’obbligo
Finite le elementari avevo diritto a altri tre anni di scuola. Anzi la Costituzione dice che avevo l’obbligo di andarci. Ma a Vicchio non c’era ancora scuola media. Andare a Borgo era un’impresa. Chi ci s’era provato aveva speso un monte di soldi e poi era stato respinto come un cane.
Ai miei poi la maestra aveva detto che non sprecassero soldi: “Mandatelo al campo. Non è adatto per studiare”.
Il babbo non le rispose. Dentro di sé pensava: “Se si stesse di casa a Barbiana sarebbe adatto”.

Barbiana
A Barbiana tutti i ragazzi andavano a scuola dal prete. Dalla mattina presto fino a buio, estate e inverno. Nessuno era “negato per gli studi”.
Ma noi eravamo di un altro popolo e lontani. Il babbo stava per arrendersi. Poi seppe che ci andava anche un ragazzo di S. Martino. Allora si fece coraggio e andò a sentire.

il bosco
Quando tornò vidi che mi aveva comprato una pila per la sera, un gavettino per la minestra e gli stivaloni di gomma per la neve.
Il primo giorno mi accompagnò lui. Ci si mise due ore perché ci facevamo strada col pennato e la falce. Poi imparai a farcela in poco più di un’ora.
Passavo vicino a due case sole. Coi vetri rotti, abbandonate da poco. A tratti mi mettevo a correre per una vipera o per un pazzo che viveva solo alla Rocca e mi gridava da lontano.
Avevo undici anni. Lei sarebbe morta di paura. Vede? Ognuno ha le sue timidezze. Siamo pari dunque.
Ma solo se ognuno sta a casa sua. O se lei avesse bisogno di dar gli esami da noi. Ma lei non ne ha bisogno.

i tavoli
Barbiana, quando arrivai, non mi sembrò una scuola. Né cattedra, né lavagna, né banchi. Solo grandi tavoli intorno a cui si faceva scuola e si mangiava.
D’ogni libro c’era una copia sola. I ragazzi gli si stringevano sopra. Si faceva fatica a accorgersi che uno era un po’ più grande e insegnava.
Il più vecchio di quei maestri aveva sedici anni. Il più piccolo dodici e mi riempiva di ammirazione. Decisi fin dal primo giorno che avrei insegnato anch’io.

il preferito
La vita era dura anche lassù. Disciplina e scenate da far perdere la voglia di tornare.
Però chi era senza basi, lento o svogliato si sentiva il preferito. Veniva accolto come voi accogliete il primo della classe. Sembrava che la scuola fosse tutta solo per lui. Finché non aveva capito, gli altri non andavano avanti.

la ricreazione
Non c’era ricreazione. Non era vacanza nemmeno la domenica.
Nessuno di noi se ne dava gran pensiero perché il lavoro è peggio. Ma ogni borghese che veniva a visitarci faceva una polemica su questo punto.
Un professore disse: “Lei reverendo non ha studiato pedagogia. Polianski dice che lo sport è per il ragazzo una necessità fisiopsico…”.
Parlava senza guardarci. Chi insegna pedagogia all’Università, i ragazzi non ha bisogno di guardarli. Li sa tutti a mente come noi si sa le tabellone.
Finalmente andò via e Lucio che aveva 36 mucche nella stalla disse: “La scuola sarà sempre meglio della merda”.

i contadini nel mondo
Questa frase va scolpita sulla porta delle vostre scuole. Milioni di ragazzi contadini son pronti a sottoscriverla.
Che i ragazzi odiano la scuola e amano il gioco lo dite voi. Noi contadini non ci avete interrogati. Ma siamo un miliardo e novecento milioni. Sei ragazzi su dieci la pensano esattamente come Lucio. Degli altri quattro non si sa.
Tutta la vostra cultura è costruita così, come se il mondo foste voi.

ragazzi maestri
L’anno dopo ero maestro. Cioè lo ero tre mezze giornate la settimana. Insegnavo geografia matematica e francese a prima media.
Per scorrere un atlante o spiegare le frazioni non occorre la laurea.
Se sbagliavo qualcosa poco male. Era un sollievo per i ragazzi. Si cercava insieme. Le ore passavano serene senza paura e senza soggezione. Lei non sa fare scuola come me.

politica o avarizia
Poi insegnando imparavo tante cose.
Per esempio ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia.
Dall’avarizia non ero mica vaccinato. Sotto gli esami avevo voglia di mandare al diavolo i piccoli e studiare per me. Ero un ragazzo come i vostri, ma lassù non lo potevo confessare né agli altri né a me stesso. Mi toccava esser generoso anche quando non ero.
A voi vi parrà poco. Ma coi vostri ragazzi fate meno. Non gli chiedete nulla. Li invitate soltanto a farsi strada.

I ragazzi di paese

contorti
Dopo l’istituzione della scuola media a Vicchio arrivarono a Barbiana anche ragazzi di paese. Tutti bocciati, naturalmente.
Apparentemente il problema della timidezza per loro non esisteva. Ma erano contorti in altre cose.
Per esempio consideravano il gioco e le vacanze un diritto, la scuola un sacrificio. Non avevano mai sentito dire che a scuola si va per imparare e che andarci è un privilegio.
Il maestro per loro era dall’altra parte della barricata e conveniva ingannarlo. Cercavano perfino di copiare. Gli ci volle del tempo per capire che non c’era registro.

il galletto
Anche nel sesso gli stessi sotterfugi. Credevano che bisognasse parlarne di nascosto. Se vedevano un galletto su una gallina si davano le gomitate come se avessero visto un adulterio.
Comunque sul principio era l’unica materia scolastica che li svegliasse. Avevamo un libro di anatomia. Si chiudevano a guardarlo in un cantuccio. Due pagine erano tutte consumate.
Più tardi scoprirono che son belline anche le altre. Poi si accorsero che è bella anche la storia.
Qualcuno non s’è più fermato. Ora gli interessa tutto. Fa scuola ai più piccini, è diventato come noi.
Qualcuno invece siete riusciti a ghiacciarlo un altra volta.

le bambine
Delle bambine di paese non ne venne neanche una. Forse era la difficoltà della strada. Forse la mentalità dei genitori. Credono che una donna possa vivere anche con un cervello di gallina. I maschi non le chiedono di essere intelligente.
È razzismo anche questo. Ma su questo punto non abbiamo nulla da rimproverarvi. Le bambine le stimate più voi che i loro genitori.

Sandro e Gianni
Sandro aveva 15 anni. Alto un metro e settanta, umiliato, adulto. I professori l’avevano giudicato un cretino. Volevano che ripetesse la prima per la terza volta.
Gianni aveva 14 anni. Svagato, allergico alla lettura. I professori l’avevano sentenziato un delinquente. E non avevano tutti i torti, ma non è un motivo per levarselo di torno.
Né l’uno né l’altro avevano intenzione di ripetere. Erano ridotti a desiderare l’officina. Sono venuti da noi solo perché noi ignoriamo le vostre bocciature e mettiamo ogni ragazzo nella classe giusta per la sua età.
Si mise Sandro in terza e Gianni in seconda. È stata la prima soddisfazione scolastica della loro povera vita. Sandro se ne ricorderà per sempre. Gianni se ne ricorda un giorno sì e uno no.

la Piccola Fiammiferaia
La seconda soddisfazione fu di cambiare finalmente programma.
Voi li volevate tenere fermi alla ricerca della perfezione. Una perfezione che è assurda perché il ragazzo sente le stesse cose fino alla noia e intanto cresce. Le cose restano le stesse, ma cambia lui. Gli diventano puerili tra le mani.
Per esempio in prima gli avreste riletto per la seconda o terza volta la Piccola Fiammiferaia e la neve che fiocca fiocca fiocca. Invece in seconda e terza leggete roba scritta per adulti.
Gianni non sapeva mettere l’acca al verbo avere. Ma del mondo dei grandi sapeva tante cose. Del lavoro, delle famiglie, della vita del paese. Qualche sera andava col babbo alla sezione comunista o alle sedute del Consiglio Comunale.
Voi coi greci e coi romani gli avete fatto odiare tutta la storia. Noi sull’ultima guerra si teneva quatt’ore senza respirare.
A geografia gli avreste fatto l’Italia per la seconda volta. Avrebbe lasciato la scuola senza aver sentito rammentare tutto il resto del mondo. Gli avreste fatto un danno grave. Anche solo per leggere il giornale.

non ti sai esprimere
Sandro in poco tempo s’appassionò a tutto. La mattina seguiva il programma di terza. Intanto prendeva nota delle cose che non sapeva e la sera frugava nei libri di seconda e prima. A giugno il “cretino” si presentò alla licenza e vi toccò passarlo.
Gianni fu più difficile. Dalla vostra scuola era uscito analfabeta e con l’odio per i libri.
Noi per lui si fecero acrobazie. Si riuscì a fargli amare non dico tutto, ma almeno qualche materia. Ci occorreva solo che lo riempiste di lodi e lo passaste in terza. Ci avremmo pensato noi in seguito a fargli amare anche il resto.
Ma agli esami una professoressa gli disse: “Perché vai a una scuola privata? Lo vedi che non ti sai esprimere?” “…..”.
Lo so anch’io che Gianni non si sa esprimere.
Battiamoci il petto tutti quanti. Ma prima voi che l’avete buttato fuori di scuola l’anno prima.
Bella cura la vostra.

senza distinzioni di lingua
Del resto bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta. Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all’infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per bocciarlo.
Voi dite che Pierino del dottore scrive bene. Per forza, parla come voi. Appartiene alla ditta.
Invece la lingua che parla e scrive Gianni è quella del suo babbo. Quando Gianni era piccino chiamava la radio lalla. E il babbo serio: “Non si dice lalla, si dice aradio”.
Ora, se è possibile, è bene che Gianni impari a dire anche radio. La vostra lingua potrebbe fargli comodo. Ma intanto non potete cacciarlo dalla scuola.
“Tutti i cittadini sono uguali senza distinzioni di lingua”. L’ha detto la Costituzione pensando a lui.

burattino obbediente
Ma voi avete più in onore la grammatica che la Costituzione. E Gianni non è più tornato neanche da noi.
Non ce ne diamo pace. Lo seguiamo di lontano. S’è saputo che non va più in chiesa, né alla sezione di nessun partito. Va in officina e spazza. Nelle ore libere segue le mode come un burattino obbediente. Il sabato a ballare, la domenica allo stadio.
Voi di lui non sapete neanche che esiste.

l’ospedale
Così è stato il nostro primo incontro con voi. Attraverso i ragazzi che non volete.
L’abbiamo visto anche noi che con loro la scuola diventa più difficile. Qualche volta viene la tentazione di levarseli di torno. Ma se si perde loro, la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati. Diventa uno strumento di differenziazione sempre più irrimediabile.
E voi ve la sentite di fare questa parte nel mondo? Allora richiamateli, insistete, ricominciate tutto da capo all’infinito a costo di passar da pazzi.
Meglio passar da pazzi che esser strumento di razzismo.


(Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, pagg. 9-20, Libreria editrice fiorentina 1967)

Scrittori Vassalli, la pensione minima del mascalzone

"Abolito il tramonto individuale degli oscuri languori / si deve tramontare tutt'insieme tenendosi per mano / Tramontare più piano.."

Prima di cominciare a leggere l'articolo qui sotto delquale sottolineerò i passi - sappiate che i versi sovrastanti sono di Sebastiano Vassalli (belli e dannati) e che lo stesso Vassalli si ritirò dall'insegnamento ai fatali sedicianni+seimesi+ungiorno con la pensione minima... per dedicarsi alla scrittura, che bravo! Altro che quel fesso di Milani! ah ah Ovviamente Vassalli è di sinistra o lo era fortemente. Si ritirò in una Barbiana personale, in campagna, a vivere della "pensione minima" ah ah - realizzando il vero sogno piccolo-medio-alto borghese del poeta e conto in banca / l'inizio del Creato (e del Creatore), sicuro dei successi futuri e della sine cura presente, farsi i' cazzi sua.
Due figli di papà, Sebastiano e Lorenzo, ma che storie divergenti!

Michele A. Cortelazzo «Corriere del Ticino», sabato 19 settembre 1992, p. 37>A cavallo tra giugno e luglio si è consumata nei giornali una delle tante polemiche culturali dell'estate, in tutto simili, per il loro sorgere improvviso e l'altrettanto improvviso chetarsi, ai temporali estivi. Questa volta è toccato alla figura di don Lorenzo Milani, messa in discussione da un articolo di Sebastiano Vassalli apparso su «Repubblica» del 30 giugno, col titolo, che è tutto un programma, «Don Milani, che mascalzone». Vassalli sottolinea punti deboli, certamente demagogici o insensati, della pedagogia di don Milani [lo coglie in contraddizione il sinistro scrittore-poeta](ad es. la proposta di abolire la matematica dalle magistrali perché per insegnare questa materia ai bambini sarebbero sufficienti le nozioni apprese alle elementari; l'idea di poter ridurre la pedagogia ad una paginetta; l'uso del giornale finalizzato a puri scopi di indottrinamento; la teorizzazione dell'utilità didattica delle punizioni corporali ecc.), o individua nel libro più famoso non di don Milani, bensì della sua scuola, Lettera a una professoressa, una delle cause del degrado che la scuola italiana avrebbe subito dopo il '68 e giunge così a quella demolizione della figura educativa di don Milani che era preannunciata dal titolo. E, nel chiudere la polemica (il successivo 4 luglio sullo stesso giornale) Vassalli afferma che i sostenitori di quel libro, se solo lo leggessero o lo rileggessero, si accorgerebbero che i suoi contenuti non sono più difendibili di quanto lo siano, oggi, le economie pianificate dei Paesi dell'Est o la rivoluzione culturale cinese.[miezzega!]

A me pare, invece, che quel libro, che ho letto e riletto più volte in questi anni, sia ancora difendibile, e proprio per ragioni che riguardano questa rubrica.

Ad un recente convegno ho sostenuto, argomentandolo con ampiezza maggiore di quella che mi posso concedere qui, che Lettera a una professoressa possa essere letto ancora oggi come un manuale di scrittura e come un esempio di scrittura. Don Milani è riuscito a far scrivere ai suoi allievi un libro di rara efficacia, e questo mentre nelle scuole 'regolari' d'Italia gli scolari perdevano il loro tempo, e inaridivano la loro eventuale capacità di scrittura, in temi dai titoli surreali come «Parlano le carrozze ferroviarie». Ebbene, aver fatto raggiungere questo risultato a dei giovani contadini e montanari mi pare un merito non da poco. Vassalli, in realtà, non crede che Lettera a una professoressa sia stata scritta dagli allievi, bensì da don Milani stesso: ma non c'è da dargli retta, fino a quando non ci spiegherà perché allora nell'epistolario di don Milani ci sono numerose narrazioni del difficile processo di stesura collettiva di quella lettera (tutte invenzioni?).

Ed è invece proprio l'esposizione delle modalità del processo di scrittura, contenuta anche nella Lettera a una professoressa, l'aspetto tuttora vitale del libro: io credo che tutti gli insegnanti e tutti coloro che scrivono per professione, qualunque essa sia, dovrebbero ricordare sempre quel che Lettera a una professoressa dice a proposito dello scrivere: che è un'arte, benché fatta d'una tecnica piccina; che come ogni tecnica è insegnabile e che per insegnarla non sono necessari strumenti sofisticati, ma la costante attenzione a certe piccole, banali operazioni (trovare le idee, cercare un filo logico con cui ordinarle, articolare il testo in capitoli e paragrafi, dare un titolo ai paragrafi, per provare che si tratti effettivamente di sotto-unità complete ed autonome ecc.): tutte cose che, magari con altre parole, più difficili, oggi dicono pedagogisti e insegnanti impegnati a far uscire dalla scuola non dei giovani ideologizzati o infatuati, ma dei giovani che sappiano fare alcune cose, e fra queste scrivere.

Don Milani ha insegnato, insomma, ai suoi allievi, e i suoi allievi ricordano a noi, quella tecnica piccina che dovrebbe essere coltivata con solerzia e umiltà da tutti gli scriventi - compresi (riprendo temi e geremiadi ormai note ai lettori di questa rubrica) i burocrati ministeriali, che anche in questi giorni hanno fornito illustri esempi di incapacità scrittorie (segnalo solo i nuovi esami teorici per la patente che hanno portato alla bocciatura di un gran numero di candidati, ma non si capisce se per ingiustificata ignoranza delle norme stradali o per giustificatissima incapacità di comprendere il ministerialese). Vassalli si stupisce che, negli anni Novanta, ci siano ancora così tante persone che fanno di don Milani un mito; chissà se anch'io, scrivendo queste poche righe, ho dimostrato di vivere di un mito. Se anche così fosse, però, non mi spiacerebbe; in questi anni di crisi, ancora peggiori dei «banali anni Ottanta» (per usare proprio una definizione di Vassalli), essere in grado di accendersi per un mito mi pare una bella cosa.


post scriptum
banali anni Ottanta nei quali il nostro Sebastiano andava in pensione in giovane età e s'iscriveva al grande libro dei paraculi.

processi

Leggendo google sto al mondo vigile presente. Ogni contenuto posso vederlo insieme nella precarietà assoluta e nel relativo contesto, il senso ultimo viene da questo modo, il processo lo dice.


talk esami


come fu scritto "Lettera ad una professoressa"
Adele Corradi

Nel 1963 aveva poco meno di quarant’anni e insegnava Lettere in una scuola media. Le parlò di don Milani la sua preside, moglie del giudice Marco Ramat, uno dei fondatori di Magistratura democratica. Era appena stata varata la riforma della media: obbligo fino a 14 anni, niente più avviamento al lavoro, scuola uguale per tutti, come dettava la Costituzione. Un giorno di settembre salì a Barbiana, lì quel sacerdote proveniente dalla buona borghesia, di solida cultura classica e laica, madre ebrea, convertitosi a vent’anni e ordinato a ventiquattro, sperimentava da un decennio il nuovo sistema. Le avevano detto di fare in fretta, perché gli era stato diagnosticato il morbo di Hodgkin e gli restavano tre mesi di vita.

Quella mattina don Milani e i suoi ragazzi stavano tentando un esperimento: una lettera collettiva agli alunni di un altro grande innovatore, il maestro Mario Lodi. Quel modello di scrittura venne praticato altre volte fino a sfociare nella Lettera a una professoressa. Nel frattempo la Corradi si era trasferita a Barbiana, aveva affittato una stanza vicino alla chiesa. Don Lorenzo stava male, ma le cure avevano dato risultati e smentito le previsioni più infauste. «La scrittura della Lettera iniziò a fine estate del 1966», racconta la Corradi. «Due ragazzi erano stati bocciati agli esami». Due ragazzi figli di povera gente, a uno dei quali si deve la pagina iniziale: «Cara Signora, lei di me non si ricorderà nemmeno il nome». «Don Lorenzo era spesso a letto, si alzava solo la domenica per la messa. Poi da gennaio non si alzò più. La scrittura collettiva funzionava così: ognuno appuntava delle idee su un foglietto, poi i foglietti venivano accumulati e discussi uno per uno. Si limava, si toglieva il superfluo e si cercavano le parole più efficaci, comprensibili anche all’ultimo degli alunni. Un giorno proposi di inserire un concetto: non limitiamoci a dire agli insegnanti di non bocciare, diciamo che devono anche insegnare. Don Lorenzo mi guardò e disse: "Non va bene. Gli insegnanti devono insegnare. Se non insegnano vanno all’inferno". Giancarlo, un ragazzo di 15 anni, si occupò delle statistiche. A darci una mano venne Giuseppe Matulli, che lavorava all’Istat e che ora è vicesindaco di Firenze. Fu don Lorenzo a trasformare quelle tabelle in disegnini a colori. E fu sempre lui a scrivere il capitoletto sull’Italia contadina assente da quel Parlamento che aveva approvato la riforma della media, con la destra che proponeva più latino, la sinistra più scienza, topi di museo i primi, topi di laboratorio i secondi, li chiamava: "Lontani gli uni e gli altri da noi che non si parla e s’ha bisogno di lingua d’oggi e non di ieri, di lingua e non di specializzazioni"».

Don Lorenzo e i ragazzi lavorarono alla lettera per nove mesi. «Barbiana era una scuola aperta dodici ore al giorno, tutto l’anno», racconta Pecorini. Lui, giornalista dell’Europeo, conobbe il prete nell’estate del 1958, quando la Civiltà Cattolica stroncò Esperienze pastorali, precedendo il decreto del Sant’Uffizio che ne voleva vietare la vendita. «Gli mandai un telegramma e dopo due giorni mi fece telefonare. Arrivai a Barbiana mentre faceva scuola. Senza sollevare la testa da un libro, don Milani sibilò: "Questo è l’imbecille che ci ha mandato il telegramma". Rimasi di sasso. Ma a Barbiana non si distribuiva la posta, non c’erano telefono ed elettricità. Era arrivato un avviso e lui si era allarmato. Qualcuno era sceso a Vicchio e aveva dovuto pagare una multa salata».

La scuola era uno stanzone accanto alla chiesa. Alle pareti, ricorda Pecorini, una libreria costruita dai ragazzi. Poi tavolacci d’osteria, carte geografiche e tabelle sulla decolonizzazione in Africa e in Asia, uno schema del Parlamento, foto di Gandhi e di bambini neri. Più tardi comparve la scritta: «I care». Qualche volta spuntava un gigantesco spartito: «I ragazzi ascoltavano Beethoven e don Lorenzo con una bacchetta li invitava a seguire la musica». La musica, le lingue straniere (poca grammatica, molto uso), saper costruire uno scaffale: erano pilastri pedagogici. Come scrivere e leggere collettivamente. Oppure far scuola fra loro, i più grandi che diventano maestri dei più piccoli. «Niente libri di testo, ma per ogni materia anche cento libri, e poi i giornali, commentati a fondo». Da una porta si entrava nella stanza dove dormiva il priore. Al piano di sopra vivevano Leda, la perpetua, e Michele e Francesco (Francuccio) Gesualdi, che vissero a Barbiana fino alla morte di don Lorenzo. (Michele è diventato sindacalista della Cisl e presidente della Provincia di Firenze, Francuccio è stato fondatore della Rete Lilliput, e ora esce un suo libro Il mercante d’acqua - Feltrinelli, pagg. 132, euro 8).

Quando il libro fu finito, don Lorenzo si era trasferito dalla madre a Firenze, dove continuava a lavorare con i ragazzi. «Venne a trovarlo il proprietario della Libreria editrice fiorentina, che stampò la Lettera in cinquemila copie», racconta la Corradi, «e lui gli disse "ti basteranno per una settimana"». Della Lettera si fecero nuove edizioni, ma don Lorenzo non c’era più. Una copia l’aveva regalata ad Adele con la dedica: «Poi finalmente trovammo una professoressa diversa da tutte le altre che ci ha fatto tanto del bene».

Leggere Google

Leggendo google porgo i miei estremi addii ad un mondo che ricordo altrove, in spazi bianchi e neri, vivi di vita propria, lenti e temibili ma di parola, che mantenevano in un certo senso quel che promettevano. Terribili foto del passato che spengono i ricordi in un disegno. Incontro nei pensieri della gente cose e contesti che ritrovo intatti, come morti.

Google accoglie con le parole i contributi involontari di tutti, è un'enciclopedia paradossale, un'estrema ratio della conoscenza che nega se stessa.


via ludovico di monreale, 26 - videorlab

scrittura collettiva

Cimentarsi col metodo imparato a Barbiana: annotando sui foglietti i pensieri sparsi di ciascuno e facendo dei foglietti affini blocchetti, destinati a diventare capitoli, suddivisi all’interno in paragrafi. A quel punto, come raccontava don Milani, teorizzando il concetto della scrittura collettiva: «Comincia la gara a chi scopre parole da levare, aggettivi di troppo, ripetizioni, bugie, parole difficili. Si accettano consigli per la chiarezza. Si rifiutano i consigli di prudenza».
Lorenzo Milani a far da regista.

[stand] progettazione

non-progettazione un altro testo "frontiera" sulla progettazione che terremo presente.

La sensazione-sospetto, per molti, è che da Williams in avanti il fare poesia non differisca molto dal fare tout court: se la poesia si è dissolta dalla prosa del mondo perché non assumere la prosa del mondo a poesia?


Williams invece mette in discussione la liceità della poesia come processo di esplicitazione caotica e casuale dell'io lirico, e quella dell'assunzione del linguaggio come registrazione, che vi si omologa, di qualsiasi atto liberatorio da costrizioni esterne. Nega che qualsiasi tipo di « scrittura» sia operazione corretta dal punto di vista etico e politico, né tantomeno che la poesia sia utilizzabile come momento (secondo l'ipotesi romantica) di sincronizzazione dell'io (in positivo o - e non fa nessuna differenza in negativo) con il cosmo dato o immaginato.

Piuttosto la poesia (e lo attesta l'opzione per un discorso metonimico contro uno metaforico, soprattutto in Al Que Quiere!, ma già in molte parti di The Tempers), è ipotesi « tecnica» di costruzione di uno spazio geometricamente e architettonicamente articolato (costruito per l'uomo, si noti bene, come una «casa» S.E. p. 177) e l'artista, come per Poe, è «ingegnere» (S.E. p. 35) che produce «stratagemmi» (S.E. p. 293), «oggetti» altri da sé. (I.AG. p. 294 e sgg.).

La poesia inoltre non è, come si diceva, momento liberatorio, o lo è solo nella misura in cui essa stessa si libera dalla « tradizione» che l'ha preceduta (le costrizioni formali fini a se stesse che sottendono una volontà di costrizione culturale) e cosi facendo si libera da se stessa e assume a nuovo imperativo categorico formale e/o tematico il rifiuto della contemplazione dell'io lirico nell'atto di rispecchiarsi negli aspetti «più eccessivamente opportuni» (leggi: «attesi », I.AG. p. 305) del mondo in cui vive.

Ancora una volta, l'esempio per Williams viene da Poe. Infatti in contrapposizione all'ipotesi «romantica» secondo cui l'uomo fuggiva la società alla ricerca della propria perduta integrità morale, dentro la natura, e sublimava, così facendo, la propria infelicità, « in solitudine »,E.A. Poe aveva progettato modelli di scrittura (in questo caso per Williams la scelta formale è politica) in grado di indicare e accelerare il processo di rottura dell'atto letterario americano nei confronti della tradizione e della propria funzione-immagine,cioè nei confronti di se stesso. Poe aveva infatti scelto di assumere la città (località) e l'io a momento d'incontro - scontrotra forze di segno contrario indissolubili (la « località» contro e verso l'individualità e viceversa), ribaltando in questo modo le aspettative del proprio pubblico a differenza, ad esempio, di quanto aveva fatto, perlustrando l'ovvio, J.F. Cooper.

In questa direzione intende operare Williams. Costretto a confrontarsi, come d'altra parte facevano gli altri, con la bancarotta economica e ideologica del primo 900, cerca di evitare l'ovvio: cioè la riformulazione, nell'ambito della poesia, della « fuga », o dentro la «letteratura» (secondo l'esempio di Pound, Eliot e dei Fugitives) o dentro immagini di nuova « materialità», ad esempio quella della «città» (New York) assunta a nuova metafora « positiva »: il « ponte» di Crane che si propone di ripercorrere la storia, ma non fa altro che rimetterla tra parentesi, rienunciando le valenze «mitiche» del caos.

Williams vuole liquidare miti, mitologie, linguaggi mutuati e non, ricominciando sempre da capo; propone un io lirico che si riconosce nello squallore delle città, nel banale, nella bipolarità della dimensione naturale (i fiori cioè, ma anche le radici e il fango), nella depressione, vi si compromette fino in fondo, nella imagery e nel linguaggio.

In tale senso, al di fuori cioè del sogno, lontano da una facile assunzione di una dimensione «utopica », dell'io che si atteggia a spazio privilegiato del discorso in versi, la poesia registra la dilacerazione dell'io nei confronti dell'io, e la dissonanza del proprio discorso nei confronti della tradizione, in altre parole della «poesia» tout court: non è forse vero infatti che, nata come monologo, preghiera tra sé e l'altro (il non dato cioè, nelle varie versioni di: dei, dio, universo),la poesia si era trasformata in inno dell'io a se stesso, come unico punto di riferimento della propria disperazione (Whitman che canta ed ama « se stesso », perché non riconoscendosi più in niente, propone di riconoscersi in tutto e legge il suo corpo come l'America e l'America - piagata - come il suo corpo)?

Williams va un passo oltre: radicalizza l'operazione whitmaniana,si guarda in faccia e si riconosce nelle «cose », perché in esse legge il momento di condizionamento primario dell'esperire individuale.

Come aveva insegnato Duchamp. Il discorso si focalizza cioè sull'« apparato» materiale delle «Cose» attraverso le quali l'individuo si esplicita; la composizione « Istruzioni» tra le più famose e antologizzate di Williams è un discorso non su un funerale, o sulla morte, o sulla solitudine dell'io, ma su un carro funebre intorno e dentro il quale si svolge la poesia; come «Buona notte» che non verte sul sogno (la visione delle tre jeunes filles en fleur), ma sul lavandino e sul prezzemolo, su una cucina, la sera. Non perché siano «poetiche », ma semplicemente perché esistono e perché ad esse è legato l'esperire dell'io lirico.

La «poesia» cioè è corollario, non esperienza subliminale dell'io che acriticamente si riconosce nell'impoetico, ma che lo ri-conosce, misurandovisi e accentuandone i meccanismi di condizionamento, secondo un processo di disvelamento e analisi della spazialità totale delle « cose », verso e contro l'uomo, che l'indirizzo figurativo « Precisionista », mutuandolo attraverso Duchamp e i cubisti, farà, di lì a qua1cheanno suo.

La difficoltà dell'impresa giustifica, accanto a poesie derivative, come si diceva, sul modello di Pound, Browning e Milton, la presenza di una serie di componimenti (tra gli altri «Cicoria e margherite », «Canzone d'amore », «Eroe» e «El hombre ») in cui la «parola» tenta di tradurre l'energia fisica, i nodi della passione e il mistero del non-significato e non-traducibile «Tramonto d'inverno» e «In porto »). Il discorso registra nella propria incisività e lapidarietà la forza e/o solitudine dell'individuo, senza cedimenti retorici: in « Preludio», ad esempio, la sintonizzazione con il cosmo è registrata nei suoi aspetti meno magniloquenti. E l'attenzione è simultaneamente focalizzata sulla parola ipoteticamente assunta quale verbum (capace di registrare il cosmo) e sulla sua negazione: in altre parole Whitman contro e a confronto con 1'« Armony Show»; l'utilizzazione della parola come tramite correlativo della «cosa» e il dubbio-certezza della propria inadeguatezza a conoscere se non attraverso una dissoluzione dei modi tradizionalidi registrazione «letteraria» della realtà; la scelta cioè di perlustrare simultaneamente la realtà e i modi di traduzione della realtà, negando alla sintassi «figurativa») tradizionale la propria funzionalità, come in «Figura Metrica ».

Di qui la «non-eroicità» del reale, perché al di là della superficie, dell'ovvietà, un'operazione di scavo, di registrazione delle forme, evidenzierà quale humus primario, la debolezza «A mo' di scusa»), l'epica antiepicità dell'esistere «Istruzioni»), lo squallore, come nei quadri di Eduard Hopper, delle strade vuote e il silenzio, il desiderio di uscire dalla propria casa trascinandosela dietro e la necessità di « parlare » la realtà corposa della città «

L'operazione di Williams si muove allora lungo le coordinate del progetto poetico di Whitman ma senza sentimentalismi, con il coraggio dello squallore, (come vorrà più tardi Ginsberg), e la certezza che la sovrapposizione del «sogno» (immaginazione-poesia) alla realtà non deve signifìcarne una lettura distorta, ma una modificazione, attraverso l'offerta di modelli di lettura alternativi.

In questo senso la storia entra, in negativo, nella città, nella vita delle «personae» che le poesie toccano. In genere attraverso le figure femminili «

Le immagini degli stracci, degli steccati, delle rimesse nei cortili parlano 1'« altra» America, raccontano l'America che Stieglitz fotografava; avvicinati in modo puritanamente «precisionista», a un passo brevIssimo dalla ipotesi iperrealista di lettura della realtà, si contrappongono ad una realtà miticamente positiva, «bella », di cui denunciano l'assenza.

Sottolineano lo squallore dell'esistenza dell'artista «McB »), contro la finzione del sogno, degli scantinati fetidi contro il sogno ad occhi aperti «Keller Gegen Dom» ), del concreto contro 1'astrattezza di un liberismo qualunquista «Ritratto di una donna a letto »).

La consapevolezza che è giunto il momento di liquidare definitivamente un'ipotesi esperienzale «romantica» si accompagna al sogno che la realtà possa essere ancora posseduta dall'io lirico individuale e individuato attraverso la parola.

Williams cioè continuando a farla nega la possibilità di fare arte, secondo la lezione dell'avanguardia storica, e così tacendo registra la propria prigionia dentro al lInguaggio, con interessanti e coraggiose sbandate all'interno della poesia.

L'ipotesi ultima è che la resa fictional della realtà sia più vera del vero e che i prodotti dell'immaginazione coartata al reale siano più raccapriccianti del ,vero, «bambina i tuoi petali si arriccerebbero!» si legge nella composizione intitolata «L'orco») e la donna, posseduta attraverso la poesia è «foglia secca» perché, al di là della sua bellezza, il paesaggio in cui si colloca, la deturpa. La lettura in profondità del mondo ne rileva gli scompensi qualitativi e denuncia - come nell'ipotesi iperrealista - l'assenza di una linea di separazione tra «sogno» e realtà: non perché il sogno (la poesia) abbia sostituito il reale ma perché il reale ha «invaso» anche il sogno, cosicché la dimensione onirica non si configura più come dimensione alternativa al reale, ma come registrazione deformata dei dati del reale.

L'intelligenza con lucidità registra il «grottesco» nel reale e in quanto si suppone « altro» rispetto al reale: al di là del gioco dell'ironia, il mostruoso, la realtà. Lo scrittore registra la dissoluzione del proprio io lirico nelle cose, la deformità polivalente ma irreversibile del proprio punto di vista «L'orco»), la provvisorietà permanente delle proprie scelte lessicali.

E la disarmonia delle opzioni tematiche sta ad indicare, secondo la lezione di Duchamp, la teorizzazione della non-scelta, ossia la impossibilità di una scelta che prescinda dal « nuovo-orrido »: la malizia, lo squallore di rapporti « sentimentali» asfittici, la solitudine, il « mostruoso» appunto, da cui sembra, non salvarsi nessuno, (i «figli del coroner », la «piccola figlia dell'omicida »), e che pare aver intaccato e plasmato totalmente il reale. La poesia si trasforma in una grossa finzione, terrificante, che come i musei delle cere disvela appunto il «mostruoso» del mondo, dentro e contro cui Williams proietta i suoi «sogni ».

La poesia si è davvero definitivamente dissolta nella prosa del mondo: partito da un intento epico, Williams ha finito per disvelare l'anti-epicità della realtà americana, passando attraverso l'esperienza dell'avanguardia storica. Dentro la dannazione della poesia, ha pubblicizzato (come Poe) la propria disperazione e le «cose» che di tale disperazione sono correlativi-condizionanti.

Tutt'al più il rischio che Williams corre è quello della contemplazione dell'oggetto che, in quanto esibizione e illustrazione dello stesso, a volte finisce per pubblicizzare appunto le « cose» piuttosto che le loro strutture profonde.

Che è un rischio, questo ultimo, corso da molti, perché qualche volta, l'avanguardia che si leva «contro la mercificazione estetica vi si precipita dentro».

La poesia infatti non cancella ma «sposta », uno dopo l'altro, gli «oggetti », ne muta la prospettiva in rapporto allo sguardo, disvela angolature diverse, pieghe nascoste, intarsi e fenditure, lucentezza e disegno, ruggine e polvere; sollecita lo sguardo, lo dirige, lo mette a fuoco, così da produrre, senza volerlo e senza che ce ne si renda conto, 'al proprio interno, un momento di scambio tra immagine e sguardo, tra la «passività» degli oggetti e la tensione/attenzione dell'intelligenza. Che farci? D'altra parte Williams aveva sostenuto che per evitare di morire è necessario evitare che l'immaginazione sia posseduta dalla morte, ma non è colpa della poesia se gli oggetti, le merei non sono più « rimuovibili » neppure dalla fantasia:

«La bomba parla. / Tutte le repressioni, I dai processi per stregoneria a Salem / ai più recenti / falò di libri: / sono la confessione / che la bomba/ è entrata nella nostra vita / per distruggerci ».

Nota: by BARBARA LANATI, William Carlos Williams"

don Lorenzo insegnante

Don Lorenzo poteva sostenere la sua visione del mondo radicale perchè era credente, ed era sostenuto da una ideologia, una condizione sociale, uno stile di vita?

quel volume «non deve esser letto come un ricettario, ma come un atteggiamento etico». «Spesso gli amici (...) insistono perché io scriva per loro un metodo, che io precisi i programmi (...)», annota don Milani in Esperienze pastorali, pubblicato nel 1958, quattro anni dopo l’arrivo a Barbiana. «Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare per fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter fare scuola».

Dopo l'istituzione della scuola media a Vicchio arrivarono a Barbiana anche i ragazzi di paese. Tutti bocciati naturalmente.
Apparentemente il problema della timidezza per loro non esisteva. Ma erano contorti in altre cose.
Per esempio consideravano il gioco e le vacanze un diritto, la scuola un sacrificio. Non avevano mai sentito dire che a scuola si va per imparare e che andarci è un privilegio.

Il maestro per loro era dall'altra parte della barricata e conveniva ingannarlo.
Cercavano perfino di copiare. Gli ci volle del tempo per capire che non c'era registro.
Anche sul sesso gli stessi sotterfugi. Credevano che bisognasse parlarne di nascosto. Se vedevano un galletto su una gallina si davano le gomitate come se avessero visto un adulterio.

Comunque sul principio era l'unica materia scolastica che li svegliasse.
Avevamo un libro di anatomia. Si chiudevano a guardarlo in un cantuccio.
Due pagine erano tutte consumate.

Più tardi scoprirono che son belline anche le altre. Poi si accorsero che è bella anche la storia.
Qualcuno non s'è più fermato. Ora gli interessa tutto. Fa scuola ai più piccini, è diventato come noi.
Qualcuno invece siete riusciti a ghiacciarlo un'altra volta.

Delle bambine di paese non ne venne neanche una. Forse era la difficoltà della strada. Forse la mentalità dei genitori.

Credono che una donna possa vivere anche con un cervello di gallina. I maschi non le chiedono di essere intelligente.

E' razzismo anche questo. Ma su questo punto non abbiamo nulla da rimproverarvi. Le bambine le stimate più voi che i loro genitori.

Sandro aveva 15 anni. Alto un metro e settanta, umiliato, adulto. I professori l'avevano giudicato un cretino.

Volevano che ripetesse la prima per la terza volta.

Gianni aveva 14 anni. Svagato, allergico di natura. I professori l'avevano sentenziato un delinquente. E non avevano tutti i torti, ma non è un motivo per levarselo di torno.

Né l'uno né l'altro avevano intenzione di ripetere. Erano ridotti a desiderare l'officina. Sono venuti da noi solo perché noi ignoriamo le vostre bocciature e mettiamo ogni ragazzo nella classe giusta per la sua età.

Si mise Sandro in terza e Gianni in seconda. E' stata la prima soddisfazione scolastica della loro povera vita.

Sandro se ne ricorderà per sempre.

Gianni se ne ricorda un giorno sì e uno no.

La seconda soddisfazione fu di cambiare finalmente programma.

Voi li volevate tenere fermi alla ricerca della perfezione. Una perfezione che è assurda perché il ragazzo sente le stesse cose fino alla noia e intanto cresce. Le cose estano le stesse, ma cambia lui. Gli diventano puerili tra le mani.

Per esempio in prima gli avreste detto riletto per la seconda o terza volta la Piccola Fiammiferaia e la neve che fiocca fiocca fiocca. Invece in seconda ed in terza leggete roba scriba per adulti.
Gianni non sapeva mettere l'acca al verbo avere. Ma del mondo dei grandi sapeva tante cose. Del lavoro, delle famiglie, della vita del paese.

Qualche sera andava col babbo alla sezione comunista o alle sedute del Consiglio Comunale.
Voi coi greci e coi romani gli avete fatto odiare tutta la storia. Noi sull'ultima guerra si teneva quattro ore senza respirare.

A geografia gli avreste fatto l'Italia per la seconda volta. Avrebbe lasciato la scuola senza aver sentito rammentare tutto il resto del mondo.

Gli avreste fatto un danno grave. Anche solo per leggere il giornale.
Sandro in poco tempo s'appassionò a tutto. La mattina seguiva il programma di terza. Intanto prendeva nota delle cose che non sapeva e la sera frugava nei libri di seconda e di prima. A giugno il “cretino”; si presentò alla licenza e vi toccò passarlo.

Gianni fu più difficile. Dalla vostra scuola era uscito analfabeta e con l'odio per i libri.
Noi per lui si fecero acrobazie. Si riuscì a fargli amare non dico tutto, ma almeno qualche materia. Ci occorreva solo che lo riempiste di lodi e lo passaste in terza. Ci avremmo pensato noi a fargli amare anche il resto.

Ma agli esami una professoressa gli disse:- perché vai a scuola privata? Lo vedi che non ti sai esprimere?
Lo so anch'io che il Gianni non si sa esprimere.

Battiamoci il petto tutti quanti. Ma prima voi che l'avete buttato fuori di scuola l'anno prima.
Bella cura la vostra.

Del resto bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta. Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all'infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per bocciarlo.

Voi dite che Pierino del dottore scrive bene. Per forza, parla come voi.

Appartiene alla ditta.

Invece la lingua che parla e scrive Gianni è quella del suo babbo. Quando Gianni era piccino chiamava la radio lalla. E il babbo serio:- Non si dice lalla, si dice aradio.

Ora, se è possibile, è bene che Gianni impari a dire anche radio. La vostra lingua potrebbe fargli comodo. Ma intanto non potete cacciarlo dalla scuola.

"Tutti i cittadini sono uguali senza distinzione di lingua"; . L'ha detto la Costituzione pensando a lui.


(da Lorenzo Milani, Lettera ad una professoressa, LIBRERIA ed. fiorentine, Firenze, pp 16-19
"Questo libro non è scritto per gli insegnanti, ma per i genitori. E' un invito ad organizzarsi. A prima vista sembra scritto da un ragazzo solo. Invece gli autori siamo otto ragazzi della scuola di Barbiana. Altri nostri compagni che sono a lavorare ci hanno aiutato la domenica. Dobbiamo ringraziare prima di tutto il nostro Priore che ci ha educati, ci ha insegnato le regole dell'arte e ha diretto i lavori. Poi moltissimi amici che hanno collaborato in altro modo: Per la semplificazione del testo, vari genitori. Per la raccolta dei dati statistici, segretari, insegnanti, direttori, presidi, funzionari del Mi- nistero e dell'ISTAT, parroci. Per altre notizie, sindacalisti, giornalisti, amministratori comunali, storici, statistici, giuristi. " - dopo la pagina del titolo)

martedì 11 agosto 2009

Ce n'è d'avanzo

EDITORIALE - Berlusconi ritiene una "deviazione" chiedergli conto
delle sue menzogne e delle sue condotte che disonorano le istituzioni

L'ossessione permanente

di GIUSEPPE D'AVANZO


L'Egocrate è ossessionato. Diventa isterico, quando lo si contraddice con qualche fatterello o addirittura con qualche domanda. Se non parli il suo linguaggio di parole elementari e vaghe senza alcun nesso con la realtà; se non alimenti le favole belle e stupefacenti del suo governo; se non chiudi gli occhi dinanzi ai suoi passi da arlecchino sulla scena internazionale; se non ti tappi la bocca quando lo vedi truccare i numeri, il niente della sua politica e addirittura le sue stesse parole, sei "un delinquente", come ha detto di Repubblica qualche giorno fa.

O la tua informazione è "giornalismo deviato": lo ha detto di Repubblica, ieri. Che al Prestigiatore d'affari e di governo appaia "deviato" questo nostro giornalismo non deve sorprendere e non ci sorprende. È "naturale", come la pioggia o il vento, che il monopolista della comunicazione giudichi il nostro lavoro collettivo una "deviazione". Lo è in effetti e l'Egocrate non sa darsene pace: ecco la sua ossessione, ecco la sua isteria. Deviazione - bisogna chiedersi, però - da quale traiettoria legittima? Devianza da quale "ordine" conforme alla "legge"? E qual è poi questa "legge" che Berlusconi ritiene violata da un giornalismo che si fa addirittura "delinquenza"? La questione merita qualche parola.

Il potere e il destino di Berlusconi non si giocano nella fattualità delle cose che il suo governo disporrà o ha in animo di realizzare, ma soltanto in un incantato racconto mediatico. Egli vuole poter dire, in un monologo senza interlocutori e interlocuzione e ogni volta che lo ritiene necessario per le sue sorti, che ha salvato il mondo dal Male e l'Italia da ogni male. Esige una narrazione delle sue gesta, capace di creare - attraverso le sinergie tra il "privato" che controlla e il "pubblico" che influenza - immagini, umori, riflessi mentali, abitudini, emozioni, paure, soddisfazioni, odi, entusiasmi, vuoti di memoria, ricordi artefatti.

Berlusconi affida il suo successo e il suo potere a questa "macchina fascinatoria" che si alimenta di mitologie, retorica, menzogna, passione, stupidità; che abolisce ogni pensiero critico, ogni intelligenza delle cose; che separa noi stessi dalle nostre stesse vite, dalla stessa consapevolezza che abbiamo delle cose che ci circondano. Mettere in dubbio questa egemonia mediatica che nasconde e, a volte, distrugge la trama stessa della realtà o interrompere, con una domanda, con qualche ricordo il racconto affascinato del mondo meraviglioso che sta creando per noi, lo rende isterico.

È una "deviazione" - per dire - ricordare che non si ha più notizia dei mutui prima casa e della Robin tax o rammentare che dei quattro "piani casa" annunciati, è rimasto soltanto uno, e soltanto sulla carta. È una "deviazione" ripetere che non è vero che "nessuno è stato lasciato indietro", come non è vero che i nostri "ammortizzatori sociali" siano i "migliori del mondo". È "criminale" chiedere conto a Berlusconi della realtà, delle sue menzogne pubbliche, delle sue condotte private che disonorano le istituzioni e la responsabilità che gli è stata affidata. Lo rende ossessivo che ci sia ancora da qualche parte in Italia la convinzione che la realtà esista, che il giornalismo debba spiegare "a che punto stanno le cose" al di là della comunicazione che egli può organizzare, pretendere, imporre protetto da un conflitto di interessi strabiliante nell'Occidente più evoluto.

Nessuna sorpresa, dunque, che l'Egocrate ritenga Repubblica un giornale di "delinquenti" indaffarati a costruire un'informazione "deviata". Più interessante è chiedersi se, ammesso che non l'abbia già fatto, il governo voglia muovere burocrazie sottomesse - queste sì, nel caso, "deviate" - contro questa "deviazione" - e deviazione deve apparirgli anche una testimonianza contro di lui di una prostituta che ha pagato o l'indagine di un pubblico ministero intorno ai suoi comportamenti. È un fatto che Berlusconi esige e ordina che la Rai si pieghi nei segmenti ancora non conformi, come il Tg3, a quel racconto incantato della realtà italiana. Ancora ieri, Berlusconi - mentendo a gola piena e manipolando le circostanze - ha tenuto a dire che "è inaccettabile che la televisione pubblica, pagata con i soldi di tutti, sia l'unica tv al mondo ad essere sempre contro il governo".

Sarà questa la prossima linea di frattura che attende un paese rassegnato, una maggioranza prigioniera dell'Egocrate, un'opposizione arrendevole. Lo si può dire anche in un altro modo: accetteremo di vivere nel mondo immaginario di Berlusconi o difenderemo il nostro diritto a sapere "a che punto siamo"? Se questa è la prossima sfida, i dirigenti i lavoratori della Rai, del servizio radiotelevisivo sapranno mettere da parte ambizione, rampantismo, congreghe e difendere la loro "missione" pubblica, la loro ragione di essere? Per quanto riguarda Repubblica, Berlusconi può mettersi l'anima in pace: faremo ancora un'informazione deviata dall'ordine fantastico, mitologico che vuole imporre al Paese.

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lunedì 10 agosto 2009

Una professoressa

La cultura per pochi e l'intelligenza di Don Lorenzo e la professoressa Spadoni


La sua vita http://sfs.azionecattolica.it/index.php/don-lorenzo-milani-e-la-scuola-di-barbiana/la-sua-vita/

La famiglia

Classe ’23, Lorenzo Milani è uno dei rampolli di una delle famiglie più ricche e sofisticate dell’alta borghesia intellettuale fiorentina. Una famiglia che per secoli ha sfornato docenti universitari e scienziati, filologi, linguisti, chimici. E la religione? La famiglia ha sostanzialmente un atteggiamento noncurante, agnostico, laico. Nel 1933 i coniugi Milani, che erano sposati civilmente, celebrano il matrimonio in chiesa e battezzano i tre figli, per timore delle leggi razziali.

Lorenzo è un signorino, spesso malaticcio, che riceve un’educazione intellettuale di altissimo livello, ma a scuola è un pessimo scolaro. Rimandato in quinta ginnasio, decide, inusitatamente, di saltare una classe: si presenta agli esami di ammissione in terza liceo da privatista e… li supera grazie ad un geniale tema di italiano.

Il pittore

Nel ‘41 la guerra anticipa la chiusura delle scuole. Lorenzo viene dichiarato maturo ma rifiuta d’andare all’università come tradizione per i Milani. Manifesta l’intenzione di dedicarsi alla pittura. Il padre la ritiene “una bambinata”. In ogni caso, detto fatto. Si firma “Lorenzino dio e pittore”. Un giovane adolescente con manie di onnipotenza.
È tempo di guerra e di fame. Lorenzo, mentre dipinge, si mette a mangiare un panino. Subito una donna del popolo lo apostrofa: “Non si viene a mangiare il pane bianco nelle strade dei poveri!”. Lorenzo comincia a prendere le distanze dalle “mollezze” signorili ereditate dalla famiglia.
È proprio per la sua passione di pittore, attraverso una ricerca sui colori della liturgia cattolica, che Lorenzo si avvicina in qualche modo alla Chiesa. A Gigliola nel ‘42 trova un vecchio messale. “Ho letto la Messa. Ma sai che è più interessante dei Sei personaggi in cerca d’autore?”, scrive all’amico Oreste Del Buono.

La conversione

3 giugno ‘43 incontra don Raffaele Bensi, che ne diventerà il direttore spirituale. “Per salvare l’anima venne da me. Da quel giorno d’agosto fino all’autunno si ingozzò letteralmente di Vangelo e di Cristo.” Così lo ricorda don Bensi nelle sue memorie, e continua: “quel ragazzo partì subito per l’assoluto, senza vie di mezzo. Voleva salvarsi e salvare, ad ogni costo. Trasparente e duro come un diamante, doveva subito ferirsi e ferire. e così fu”
Al capezzale di un giovane sacerdote, Lorenzo annuncia a don Bensi: “Io prenderò il suo posto” . Entra al seminario di Cestello in Oltrarno il 9 novembre ‘43. Non mancano contrasti già in seminario col rettore e col vicario generale della diocesi.

La famiglia non approva la scelta di vita religiosa del figlio. Alla cerimonia della tonsura, l’atto d’ingresso alla vita ecclesiastica, nessuno dei parenti sarà presente.
Il 13 luglio ‘47 a Santa Maria del Fiore viene ordinato sacerdote.

Esperienze pastorali

È una giornata di pioggia il 9 ottobre del ‘47, nel grosso borgo operaio di San Donato di Calenzano arriva il giovane cappellano don Milani che dovrà dare una mano al vecchio parroco Daniele Pugi.
È un periodo affascinante, che lo vede circondato da un centinaio di giovani a cui fa scuola (la scuola popolare, da lui “inventata” per avvicinare i giovani e per evangelizzarli educandoli), vive le miserie materiali e spirituali della gente del luogo. Uomini e donne chiusi nella loro solitudine, contadini smaniosi di andare in città, operai sfruttati e oppressi da tanti padroni. A San Donato il nuovo cappellano è atteso con tanta speranza e gioiosa trepidazione. Dopo il suo arrivo Lorenzo scrive alla madre: “Sicché ora sono felice e vorrei che tu lo fossi anche te”.
La Scuola Popolare era una risposta unificante alla divisione politica e culturale interna al popolo e sostituiva all’agonismo del pallone e delle mode, il piacere di sapere. La scuola c’era tutte le sere. Cominicava alle 20:30 e andava avanti fino ad esaurimento. Gli argomenti erano vari: storia dei partiti, del sindacato, delle religioni, musica, filosofia, astronomia, medicina, problemi di attualità. Ma la materia principale era la lingua: la padronanza della parola. La scuola offriva una risorsa di cui tutto il popolo aveva bisogno, credenti e non credenti.

“con la scuola non li potrò far cristiani, ma li potrò far uomini; a uomini potrò spiegare la dottrina e su 100 potranno rifiutare in 100 la Grazia o aprirsi tutti e 100, oppure alcuni rifiutarsi e altri aprirsi. Dio non mi chiederà ragione del numero dei salvati del mio popolo, ma del numero degli evangelizzati. Mi ha affidato un Libro, una Parola, mi ha mandato a predicare e io non me la sento di dirgli che ho predicato quando so che per ora non ho predicato, ma ho solo lanciato parole indecifrabili contro muri impenetrabili, parole di cui sapevo che non sarebbero arrivate e che non potevano arrivare.” (da Esperienze pastorali”)

Il fatidico 18 aprile ‘48: la Dc alle elezioni, grazie anche alla mobilitazione delle parrocchie, stravince. Don Milani attraversa un paio di tornate elettorali non senza contrasti, pur attenendosi al diktat di far votare i cristiani della parrocchia per la Dc.

Barbiana

Il 12 settembre 1954 muore Daniele Pugi, il “babbo-proposto”. Il contrasto tra don Lorenzo e gli altri preti dei dintorni emerge in modo violento. Don Milani viene esiliato: è nominato priore di Sant’Andrea a Barbiana, una piccolissima parrocchia sul monte Giovi, 475 metri sul livello del mare nei monti del Mugello, sopra Firenze. Il 6 dicembre 1954, ancora una giornata di pioggia, arriva a Barbiana.
Barbiana non può essere definito un paese e a rigore nemmeno un villaggio. A Barbiana c’è solo una chiesa, che doveva essere chiusa, con addossate alcune case; altre case, che compongono la parrocchia, sono disseminate lungo la via e i vari sentieri del monte Giovi. A Barbiana non c’è la strada, non c’è la luce, non c’è l’acqua. Irraggiungibile da automezzi. Don Milani acquista subito un posto nel piccolo cimitero di montagna, dove poi verrà sepolto con i paramenti sacri e gli scarponi da montagna.
Il giorno dopo il suo arrivo fonda una nuova scuola per i suoi ragazzi “montanini”, dove i poveri imparano la lingua che sola li può render uguali, loro che per ragioni economiche e geografiche erano fortemente svantaggiati rispetto ai ragazzi di città
Un’esperienza unica nel suo genere e forse irripetibile. Sono molti gli intellettuali attratti dalla figura di don Milani e dalla sua scuola. Numerose le visite a Barbiana: da Pietro Ingrao al teorico della nonviolenza Aldo Capitini.
Molte però anche le critiche, dal mondo ecclesiastico e da quello laico

Prete scomodo

Nel ‘58 viene pubblicato Esperienze pastorali con l’imprimatur del cardinale. Il tema di fondo è la nuova pastorale utile a ricostruire un rapporto con la classe operaia, con i poveri. Tra gli estimatori del capolavoro di don Lorenzo: Luigi Einaudi, don Primo Mazzolari, monsignor Giulio Facibeni. Il libro suscita non poche polemiche. Il Sant’Uffizio ordina il ritiro dal commercio dell’opera e ne proibisce ristampa e traduzione perché il testo è giudicato “inopportuno”.

Il 28 ottobre ‘58 diventa papa Giovanni XXIII che di lì a qualche anno convocherà il Concilio vaticano II (1962-’65). Una rivoluzione per la Chiesa.
Nel ‘59, don Lorenzo scrive a Nicola Pistelli, direttore di Politica, una rivista della sinistra cattolica, “Un muro di foglio e di incenso”, uno straordinario documento che precorre la nuova impostazione conciliare sui rapporti interni alla Chiesa cattolica. Pistelli non ha il coraggio di pubblicarlo.

Intorno al ’60 scopre di avere un tumore ai polmoni

11 febbraio 1965, nel corso di un’assemblea i cappellani militari della Toscana in un comunicato definiscono l’obiezione di coscienza “espressione di viltà”. Don Lorenzo elabora con i suoi ragazzi della scuola di Barbiana la risposta ai cappellani militari, stampata in mille copie iniziali. Difende il diritto ad obiettare ma soprattutto il diritto a non obbedire acriticamente. Esplode la polemica, il priore è minacciato di venir sospeso a divinis dal vescovo Florit e denunciato, da alcuni ex combattenti, alla procura di Firenze. Viene processato, insieme al vicedirettore responsabile di Rinascita, Luca Pavolini, per apologia di reato, a Roma dove si stampa la rivista comunista. In vista del processo, non potendo parteciparvi perché malato, prepara la Lettera ai giudici. Il 15 febbraio 1966 i giudici romani, dopo tre ore di camera di consiglio, assolvono Lorenzo Milani e Luca Pavolini perché il fatto non costituisce reato.
Don Lorenzo morirà prima del processo d’appello in cui la corte sentenzierà la condanna per Pavolini a cinque mesi e dieci giorni. Per il priore di Barbiana “il reato è estinto per morte del reo”. Una condanna.

Del ’67 è invece Lettera a una professoressa, un’opera scritta dalla scuola di Barbiana collettivamente contro la scuola classista che boccia i poveri. I giudizi sulla scuola italiana sono trancianti, irrevocabili. La lettera verrà tradotta in te-desco, spagnolo, inglese e perfino giapponese.

Nel marzo ‘67 la malattia si aggrava. Gli impedisce di parlare, comunica con dei biglietti. Due giorni prima di morire il “signorino” Milani borbotterà con la consueta ironia: “Un grande miracolo sta avvenendo in questa stanza: un cammello che passa per la cruna di un ago”.

Muore il 26 giugno ‘67. Ad appena 44 anni. È la vigilia di un ‘68 che non capirà mai fino in fondo don Milani.

Il testamento

Proprio lui, così aspro e tagliente, lascia un commovente e dolcissimo testamento a due ragazzi della scuola di Barbiana, Francuccio e Michele Gesualdi, che il priore aveva praticamente adottato, e a Eda Pelagatti, la “perpetua”, quasi una sorella, che l’aveva curato e seguito in tutta la sua vita di sacerdote. Il testamento parte con una sparata alla don Milani, ma poi si sgonfia, anzi… cresce e si illumina di tenerezza.

Caro Michele, caro Francuccio, cari ragazzi,
non ho punti debiti verso di voi, ma solo crediti. Verso l’Eda invece ho solo debiti e nessun credito. Traetene le conseguenze sia sul piano affettivo che su quello economico.
Un abbraccio affettuoso, vostro

Lorenzo

Cari altri,
non vi offendete se non vi ho rammentato. Questo non è un documento importante, è solo un regolamento di conti di casa (le cose che avevo da dire le ho dette da vivo fino a annoiarvi).
Un abbraccio affettuoso, vostro

Lorenzo

Caro Michele, caro Francuccio, cari ragazzi,
non è vero che non ho debiti verso di voi. L’ho scritto per dar forza al discorso! Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto.
Un abbraccio, vostro

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